Se è vero che, nel medesimo triennio
2001-2003, anche per altre province siciliane, tra cui Palermo,
gli indicatori sul mondo del lavoro hanno avuto un trend
negativo, va detto che così non è stato per la provincia di
Catania (e, con riferimento al valore aggiunto , alla stessa
Palermo), a riprova che un andamento in controtendenza rispetto ad
un contesto caratterizzato da un fase negativa del ciclo
economico, era, ed è, possibile.
Altri dati che devono far riflettere
sono quelli sulla dotazione infrastrutturale: pur presentando
indicatori superiori alla media sia rispetto al Mezzogiorno che al
resto della Sicilia, il trend dei dati provinciali si presenta
tuttavia discendente nel decennio 1991-2000. Inoltre,
significativo mi sembra il dato sulla estensione delle reti
stradale e ferroviaria: nel periodo 1999-2002, la prima è rimasta
invariata, mentre la seconda è aumentata di appena 13 Km.
Con riferimento, in particolare, al
litorale tirrenico della provincia, credo si debba tenere in forte
considerazione un rischio “isolamento”, rispetto all’asse
Palermo-Catania soprattutto: una migliore situazione di partenza,
in un epoca in cui sempre maggiore è la preferenza per i trasporti
aerei, delle aree a ridosso dei due poli aeroportuali di Palermo e
Catania, potenziati o in via di potenziamento per altro, ed una
maggiore “attenzione” da parte degli amministratori regionali
verso il detto asse (o “distrazione” dei politici/amministratori
provinciali e sub-provinciali), si somma ad altri fattori, tra cui
la capacità di programmare e realizzare investimenti, cofinanziati
con fondi pubblici (ad es. alcuni contratti di programma) per la
costruzione di strutture turistiche di alto livello (alberghi a
cinque stelle e campi da golf nella Sicilia centro-occidentale e
meridionale), le capacità imprenditoriali di alcuni investitori
provenienti da altre parti d’Italia (per esempio gli Zonin,
“insediatisi” nella Sicilia centro-meridionale), la creazione di
realtà universitarie in grado di generare sapere ed allo stesso
tempo di formare in collaborazione, se non in simbiosi, con il
mondo del lavoro (si pensi ad alcune facoltà dell’Ateneo catanese).
Considerare la conclusione dei lavori dell’autostrada ME-PA come
un punto di arrivo, sarebbe un gravissimo errore (certamente è
però un importante risultato). La facilitazione degli spostamenti
di persone e cose, potrebbe essere la chiave di volta per
l’economia di molti contesti territoriali. A mio avviso il
progetto di realizzazione del ponte sullo stretto va giudicato
anche alla luce dell’impatto che potrebbe avere sul sistema, per
così dire, “interno” o interprovinciale delle infrastrutture
siciliane.
Con riferimento al grado di apertura
della nostra economia, trovo singolare che nel 2003, rispetto al
2002, siano diminuite le esportazioni della provincia verso i
paesi UE e gli altri paesi europei, mentre sono aumentate quelle
verso l’Asia e, soprattutto l’America Settentrionale. Quest’ultimo
mi sembra un dato particolarmente positivo, alla luce del
rafforzamento, nel detto periodo, della moneta europea rispetto al
dollaro, che avrebbe dovuto deprimere le esportazioni verso il
nuovo mondo. Ritengo, invece, che non riusciamo a cogliere i
vantaggi della sempre maggiore integrazione economica dell’UE, che
avrebbe dovuto, ma nel nostro caso, come per la provincia di
Catania ad onor del vero, così non è stato, favorire i flussi
commerciali all’interno dell’Unione.
Sicuramente sul fronte
dell’internazionalizzazione dell’economia influisce la dimensione
delle imprese messinesi, che per l’82,8% sono imprese individuali.
Credo che le nostre piccole, se non micro, imprese debbano essere
supportate sia nella definizione di strategie commerciali che
consentano di proporsi a nuovi mercati, che nella concreta
penetrazione negli stessi, nonché infine nel potenziamento delle
proprie strutture produttive.
Mi sembra evidente che in un contesto
del genere è stata quanto mai opportuna la decisione di destinare
parte delle risorse comunitarie del periodo di programmazione
2000-2006, e del relativo cofinanziamento, alla
internazionalizzazione dell’economia siciliana. Tuttavia, ritengo
altrettanto necessario una valutazione dell’efficacia degli
interventi individuati per incentivare tale processo di
internazionalizzazione. Come sempre si pone il problema di
analizzare criticamente la destinazione delle risorse. Magari
proveremo ad interessarci del tema in futuro…
I dati sin ora esposti hanno
riguardato il territorio provinciale e non consentono di esprimere
valutazioni in merito alle aree subprovinciali. A tal fine,
tuttavia, è possibile dare uno sguardo alla relazione sui Sistemi
Locali del Lavoro (82 in Sicilia), ossia aggregazioni di comuni
limitrofi individuati dall’ISTAT in modo che una quota
predominante della popolazione risieda e lavori entro lo stesso
perimetro territoriale.
Ci conforta che alcuni SLL insistenti
sul territorio nebroideo (ad es. quelli di Brolo, Capo d’Orlando,
Santo Stefano di Calastra) abbiano registrato sino al 2002 (anno
sino al quale sono disponibili i dati) incrementi dei tassi di
attività ed occupazione e decrementi del tasso di disoccupazione.
Addirittura il SLL di Mistretta rientra, secondo l’ISTAT, tra le
situazioni di eccellenza per l’incremento della ricchezza prodotta
negli anni 2001-2002 (+15% di valore aggiunto).
A livello demografico, nei Comuni
della zona si registra il fenomeno, sotto gli occhi di tutti noi,
dello spopolamento dei territori di collina e montagna a vantaggio
dei territori costieri: quasi tutti i Comuni di mare infatti, con
l’eccezione della sola Patti (-5,8 per mille) presentavano nel
2002 un saldo totale della popolazione, ossia saldo naturale
(tasso di natalità meno tasso di mortalità per mille abitanti) più
saldo migratorio (tasso di immigrazione meno tasso di emigrazione
per mille abitanti) positivi. Questa è una tendenza da frenare,
poiché un territorio meno popolato rischia di essere un territorio
poco dinamico economicamente e più povero finanziariamente, in un
contesto istituzionale sempre più improntato all’autonomia
finanziaria degli enti locali. Improvvisi aumenti della densità di
popolazione su territori spesso non pronti a fronteggiare il
fenomeno, con riferimento alla pianificazione urbanistica
soprattutto, possono generare inoltre effetti distorsivi sullo
sviluppo anche di tali territori.
Last but not least, il dato
sulla dimensione dei Comuni della Provincia: dei 108 enti comunali
messinesi, ben 86 sono sotto i 5000 abitanti, e di questi circa 20
hanno meno di 1000 abitanti.
Parlare di politiche di sviluppo, che
ovviamente dovrebbero concretizzarsi in interventi
“extra-ordinari”, in contesti territoriali così piccoli, può
risultare problematico, per la difficoltà di individuare sia le
risorse umane che finanziarie da mettere in campo, difficoltà che
non infrequentemente comporta persino l’incapacità di assicurare
un’attività amministrativa “ordinaria” di buon livello.
Da ciò deriva la necessità di creare
quanto più possibile economie di scala nella gestione
amministrativa e di incentivare le “sinergie” tra le diverse aree
territoriali. In poche parole “stare insieme” è diventato oggi per
i Comuni della nostra Provincia sempre meno un’opzione e sempre
più una scelta obbligata.
Nonostante ciò, il campanilismo dei
vari amministratori locali, l’incapacità di andare al di là dei
piccoli e personali interessi di quartiere, uniti, a dire il vero,
ad una ineluttabile mancanza di sensibilità verso certe tematiche,
e ad un colpevole “fatalismo politico-istituzionale”
dell’opinione pubblica, fa sì che quanto appena affermato sia
mortificato a mere affermazioni retoriche, ovvietà da seminari e
convegni. Basti pensare a quanto è accaduto nell’ambito del “PIT
21-Polo turistico Tirreno Centrale” o agli infiniti disaccordi che
hanno caratterizzato e caratterizzano la definizione,
organizzazione, funzionamento e gestione degli “Ambiti
Territoriali Ottimali” per la gestione dei servizi idrico e di
raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
Eppure i vantaggi dello stare insieme
sembrerebbero essere indubbiamente evidenti. Di certo sarebbe
opportuno una maggiore attenzione, sia in fase di delimitazione
territoriale delle aggregazioni (privilegiando criteri di
condivisione delle strategie programmatiche e delle affinità
economico-territoriali alla mera vicinanza geografica o a quella
politica e “personale” degli amministratori), sia in quella della
individuazione dei modelli gestionali da adottare nel momento in
cui, per iniziativa “indotta” dalla possibilità di intercettare
risorse pubbliche destinate all’incentivazione dello sviluppo
economico-sociale o per obbligo legislativo, si creano
aggregazioni di enti locali. Bisogna cercare quanto più possibile
di prevenire (facile a dirsi ma assai difficile a farsi) gli
eventuali conflitti, contemperando e componendo i differenti
interessi delle parti.
Al fine di dare sostanza a quanto
affermato in merito alle aggregazioni, faccio l’esempio dei
potenziali vantaggi che potrebbero derivare dalla stipula di una
convenzione tra più comuni di piccole dimensioni al fine di
approvvigionarsi delle risorse finanziarie necessarie agli
investimenti: nel 2004 i Comuni dei Castelli Romani si rivolsero
al mercato finanziario in associazione, facendo “massa critica” e
giovandosi di tassi più bassi rispetto a quelli che gli operatori
del mercato dei capitali avrebbero riservato ai comuni presi
singolarmente. Si pensi ancora a quanto sarebbe oneroso per i
singoli enti acquisire le prestazioni di servizi di esperti di
politica di coesione economico-sociale dell’UE o di programmazione
di interventi di sviluppo cofinanziati da enti pubblici
(sovrastatali, nazionali o regionali) o formare “in house” risorse
umane con tali competenze, e quali vantaggi invece si avrebbero
dalla creazione di vere e proprie “task forces” intercomunali,
magari mettendo a fattor comune il bagaglio di esperienze che, nel
bene o nel male, alcuni dipendenti hanno maturato o stanno
maturando attraverso i diversi istituti di programmazione
integrata di interventi di sviluppo locale finora avviati (GAL,
Patti Territoriali, Contratti d’Area, PIT etc…) sul nostro
territorio.
Nessuno sostiene che sia facile
affrontare la sfida dello sviluppo o che sia semplice ottenere
risultati, ma credo che sia improcrastinabile la necessità di
mettere in campo idee, buone intenzioni, strategie coerenti e
caratterizzate da un approccio metodologico diverso da quello sin
ora riscontrato (sintetizzabile per lo più in quella che chiamo
logica “dell’ora vediamo…”), voglia di misurarsi con i
risultati e gli esiti delle proprie azioni, senza sfuggire a
valutazioni e giudizi. Il miglior modo per iniziare sarebbe, a mio
avviso, banalmente, quello di riconoscere realisticamente il
problema, studiarlo ed “aggredirlo”, con tenacia, perseveranza,
convinzione e con il coraggio di fare delle precise scelte di
indirizzo.
giancarlo.lopresti@siciliamercato.it
*La prima parte
dell’articolo è stata pubblicata il 29.11.2005
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